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L'arte di creare un apocrifo

di Enrico Solito

Nel ringraziare sentitamente gli Organizzatori per l'invito a tenere qui una relazione - incarico che mi onora profondamente e a cui mi sento del tutto inadeguato - mi duole dovere dare l'avvio ad una spiacevole polemica. Non capisco infatti perché affidare proprio a me una relazione di questo genere.

Come ho più volte scritto e dichiarato io non ho alcuna esperienza concreta sulla stesura di apocrifi: non ne ho mai scritti, né, d'altronde, conosco o frequento persone che si siano dedicati a simili disdicevoli pratiche. Nella introduzione del libriccino della cui stesura mi sono reso colpevole, e che porta il nome della nostra Associazione (ecco un'altra preziosa occasione per ringraziarvi tutti di avermi permesso di usare questo titolo), in quella introduzione ho ben spiegato, mi sembra, i retroscena di quell'emozionante ritrovamento: tutti i particolari sono facilmente verificabili, e come sapete gli originali dei documenti di Watson sono a disposizione degli studiosi. Perciò l'allusione che ho sentito purtroppo fare da qualcuno sulla non assoluta veridicità di quei racconti mi inquieta profondamente.

E dunque, che c'entro io? Perché parlarvi di cose che non conosco? Eppure... eppure la scelta degli organizzatori, sotto sotto, un suo senso ce l'ha. Perché in effetti, proprio a causa del ritrovamento mi sono trovato insieme agli amici dell'Associazione davanti ad una serie di problemi relativi esattamente alla creazione di un apocrifo. Come si fa infatti a riconoscere un apocrifo da un originale? Su questo, e sulle lunghe ricerche che ne sono derivate, mi sono formata una esperienza non del tutto disprezzabile: e da questo deriva, in effetti, una certa esperienza in materia.

Naturalmente limitarsi all'esame della grafia di Watson, della qualità della carta o dell' inchiostro - insomma il tipico armamentario holmesiano - sarebbe quantomeno semplicistico. È del tutto ovvio che queste sono le prime cose da fare di fronte ad un supposto nuovo racconto di Watson: e se si riscontra una truffa già a questa fase, il problema non sussiste. Ma questo di per sé non basta . Non è difficile assicurarsi marche e tipi d carta da lettere non dissimili da quelle in vendita a Londra i primi del secolo: non è difficile imparare a scrivere con penna e calamaio: la grafia di Watson non è difficile da imitare. Né, purtroppo, analisi come quella del carbonio 14 e similari sono in grado di dirimere sempre il dubbio, perché troppo breve è il lasso di tempo che ci divide dall'epoca della saga. Così, se questi metodi ci difendono dai falsi più pacchiani e clamorosi, non ci garantiscono dai falsari appena più raffinati, proprio quelli più difficili da smascherare. Dobbiamo dunque rivolgerci a criteri più attenti agli stili, ai riferimenti, al mondo letterario.

Se mai scrivessi un apocrifo (ipotesi, come già detto, che scarto recisamente) starei molto attento nell' adeguarmi ad alcuni criteri di "coerenza" al Canone. Molto in sintesi esistono diverse categorie di criteri:

  1. Il racconto deve essere scritto nelle stile di Watson. Particolare attenzione va posta alle interiezioni tipiche, alla lunghezza del periodo, delle frasi: ai modi di porre le virgole: ai verbi che si usano per la forma diretta ("disse...affermò..."). È necessario un lungo studio semantico e sintattico per analizzare queste caratteristiche, allo scopo poi di aderirvi. Inoltre è necessario fare riferimento alle espressioni idiomatiche: pensiamo all'effetto destruente di un esordio come "Mio buon Watson" invece del classico "Mio caro Watson"
  2. Il racconto non deve mai cadere in contraddizione col Canone. Anzi: deve fare riferimento continuo ad esso, ove possibile esplorarne gli aspetti bui, spiegarne le contraddizioni interne, appoggiarsi comunque alla sua autorità per confermare la propria veridicità. Trovar scritto che Moriarty era in realtà un benefattore, o che Watson corre come una gazzella all'inseguimento di un ladro, ci svela senza dubbio che siamo di fronte ad un apocrifo.
  3. Il carattere dei personaggi deve essere assolutamente coerente all'originale senza indulgere in parodie o interpretazioni così libere da tradire la presenza di un falso. Questo condanna senza alcun dubbio raccontacci da balera come il purtroppo recente "samba di S.H." (Watson ubriaco di marijuana!) ma anche, a mio avviso, tutta la corrente "americana" che riducendo il povero Watson a una specie di gonzo, invece dell'abile spalla di Holmes, dimostra automaticamente la sua falsità. Noi sappiamo bene, sia detto qui per inciso, che il buon dottore è invece considerato da Holmes il suo migliore amico, un fido compagno, spesso l'ispiratore delle sue scoperte: c'è un rapporto di fiducia e stima reciproca tra i due che è una delle caratteristiche dell'intera saga. Trovare ridicolizzazioni di Watson da parte di Holmes denuncia un falso già di per sé, ed è prova sufficiente, a mio avviso, per mandare il cartafaccio al rogo.
  4. Il carattere dei personaggi deve essere in linea non solo con la lettera, ma con lo spirito del canone. Un esempio è il pur bell'apocrifo "Soluzione 7%". Tutto bello, tutto perfetto: ma un falso appunto. Perché ne sono sicuro? Signori miei, vi pare che Watson si sarebbe azzardato a scrivere, sia pure senza pubblicarlo subito, il racconto di particolari intimi della vita del suo migliore amico? Per di più coperti da segreto professionale? Tanto varrebbe credere che abbia descritto i particolari della sua vita sessuale. Non è da gentiluomo, non è da Watson: avrebbe potuto farlo un americano come Meyer, non un medico britannico.
  5. Assoluta coerenza alla realtà storica, in mancanza della quale ogni lettore potrebbe, ad ogni momento, smascherare il falso osservando l'errore. Questo vale per i riferimenti alla vita di tutti i giorni, all'uso degli utensili o alle abitudini quotidiane, ma anche alla vita politica inglese ed internazionale, agli avvenimenti realmente accaduti, eccetera: l'aderenza a questo punto comporta un lungo studio storico ed ambientale e una capacità di documentazione che rende il nostro povero autore d'apocrifi un uomo molto impegnato, e il suo lavoro una faticaccia degna di miglior causa. Se avessi dovuto scrivere il caso della Calcutta Cup (un racconto non ancora pubblicato della serie degli originali contenuti nel baule) sarei stato costretto, dalla Toscana dove vivo, a un lunghissimo lavoro di ricerca sulle linee ferroviarie inglesi di fine 800 e sull'elenco delle stazioni presenti sulla linea: assurdo, non trovate?
  6. Infine la trama e la coerenza giallistica. È pur vero che da questo pinto di vista i racconti del Canone lasciano molto a desiderare. Tutti ricordiamo che Holmes spesso raggiunge la verità sulla base di elementi che Watson non rivela al lettore: valga come esempio la rassomiglianza tra Stapleton e il ritratto di Hugo di Baskerville che rappresenta la chiave di volta del caso. Ma più semplicemente, neanche nelle fulminanti deduzioni di Holmes ("lei è stato recentemente in Afghanistan...") il meschino lettore può nulla perché lui non vede Watson, non sa che colorito ha o che portamento adotta... in fondo questa è la vendetta di Watson: non riuscendo ad interpretare come Holmes gli elementi che ha a disposizione (ma chi lo potrebbe mai?) addirittura li nega al lettore: il quale d'altra parte così non si sente in concorrenza con l'investigatore, non entra in tensione, si rilassa e si abbandona al violino, alla pipa, alla brughiera. Quando parlo di coerenza di trama quindi non intendo la suspence, la possibilità di risolvere il caso: ma più banalmente il fatto che la soluzione, pur non raggiungibile se non da Holmes, sia però non campata in aria. È molto dura da prendere per buona una storia che lasci una spiegazione non esauriente: non avremo capito nulla durante il caso, ma almeno alla fine, poffarbacco, vogliamo soddisfazione!

Tenterò di fare un esempio. Mettiamo, per amor di paradosso, che mi fosse saltato il ticchio, per questa manifestazione, di presentarvi un apocrifo su un ipotetico passaggio di Holmes proprio qui a Prato. Prima di tutto, sarebbe stato possibile, e se sì, quando? Ci sono riferimenti nel Canone? Ebbene, sappiamo (La casa vuota) che una settimana dopo l'episodio delle cascate Holmes era a Firenze e che poi, ma non sappiamo quando, proseguì per l'Oriente. Ecco un ottimo intervallo di tempo, dilatabile a volontà, per farlo spostare di qualche chilometro... certamente è possibile pensare che fosse stato qui, e che avesse avuto qualche giorno, o forse settimana, per risolvere un caso.

Il passo successivo sarebbe senz'altro stato procurarsi una piantina della città all'epoca, notizie sui trasporti pubblici, i giornali, i cittadini famosi, le biblioteche, le fabbriche: tutte notizie facilmente disponibili, per pura combinazione, in questo bel volumetto sulla storia di Prato fornito gentilmente dal Comune ai relatori. Certo, se la cosa mi fosse interessata, non avrei mancato di procurarmi la preziosa pubblicazione sulla storia del teatro Metastasio, con tanto di elenco completo degli spettacoli, dei cast, delle date di programmazione di ogni spettacolo e persino del prezzo dei biglietti: pubblicazione che, vedi caso, si trova in questo momento a casa mia, sul comodino al fianco del mio letto. Dalla consultazione di queste opere base, e dai successivi approfondimenti nella biblioteca Lazzerini e negli uffici comunali e vescovili, avrei tratto l'esatta conoscenza, l'humus in cui ambientare gli spostamenti e le vicende di Holmes a Prato: e certo difficilmente avrei dimenticato la leggendaria capacità dei Pratesi nel lavorare "i cenci", gli stracci cioè, gli avanzi di tessuto, per creare nuove pezze: come ignorare lo spunto di uno Holmes cui rimangono alle cascate in mano dei pezzetti della giacca di Moriarty che egli riconosce identico a un brandello di kilt scozzese su cui stava indagando? E quale scelta più naturale da parte dell'investigatore che recarsi nella capitale europea del tessuto, per consultare i maggiori esperti su quei brandelli? Qui egli avrebbe certamente scoperto che proprio a Prato quei tessuti erano stati filati, e l'ordine di quella partita sarebbe stata la prova di un legame tra l'organizzazione di Moriarty, un oscuro delitto sotto il Ponte dei frati Neri a Londra e l'esistenza di una associazione criminale toscana di tipo politico-finanziario ben rappresentata in città... e il tutto avrebbe potuto concludersi con una comparsa in pubblico di Holmes nello spettacolo del novembre '92 "a total benefizio del concittadino Guglielmo Bessi, tenore ammalato": che ammalato non era, ma ferito certamente sì, e a causa dell'aiuto prestato all'amico Holmes nelle indagini: Holmes che organizzò di persona lo spettacolo riportato dalla Storia del Teatro Metastasio, in cui suonò certamente il suo violino sotto il falso nome di Sigerson, ed eseguì probabilmente il pezzo "per Irene" di cui tanto abbiamo parlato... tutto ciò avrei potuto affermare, con la massima serietà, e documentandolo puntigliosamente: e l'avrei fatto certamente, se non avessi incassato il reciso niet del nostro Presidente, che mi ha ordinato di non creare un precedente, "altrimenti se l'anno prossimo facciamo un convegno all'isola di Giannutri ci tocca farlo comparire pure lì". E io obbedisco.

Ma tutto ciò non è in realtà ancora abbastanza. L'aver creato un apocrifo "credibile" non è in realtà ancora nulla: è qualcosa che può risultare fredda e vuota come una statua di cera. Il punto vero, che rende secondario tutto quello che ho detto finora, è che l'autore dell'apocrifo deve CREDERE FERMAMENTE al suo personaggio: deve viverlo da dentro, vivere il personaggio come suo, viverlo vero: deve calarsi nel Dogma Centrale, deve diventare uno sherlockiano: e gli consiglio a questo proposito di farlo solo se dispone di un apparato psichico ben saldo, perché questo continuo ondeggiare tra realtà e fantasia, tra normalità e follia, se è divertente per tutti noi, può essere estremamente pericoloso per qualcuno.

Senza questo, senza farsi "scappare la mano" per un poco, la penna si blocca sul foglio e tutto diventa una artificiosa costruzione. E invece la penna deve volare da sola, il personaggio vivere di sua vita: l'autore dell'apocrifo, dopo aver progettato il suo racconto, deve lasciare che sia Watson a raccontarglielo, che muova lui la penna: e scoprirà che il racconto è molto diverso da come era stato progettato. E allora quello che salterà fuori dal foglio sarà Sherlock Holmes. Proprio lui, quello vero . o meglio, quello che il nuovo autore d'apocrifi ha conosciuto, immaginato, previsto... perché questa è in fondo la magia del nostro caro vecchio Holmes: nei cuori di ciascuno esistono tante immagini di lui, diverse tra di loro come le nostre stesse anime. Forse nella sua immagine c'è l'eco delle nostre vite, delle nostre speranze, di noi stessi...

Se è così questo intervento non sarebbe completo se non vi raccontassi allora la mia immagine di Holmes, di come io lo vedo. Ci sono tanti aspetti, naturalmente, e il tempo è tiranno: del resto è un argomento questo su cui potremo poi confrontarci in futuro sullo Strand. Ma, in generale, io lo vedo come una persona dall'animo nobile, idealista, generoso, animato da sentimenti forti d'amicizia. Non è il nevrotico misogino disgustato dall'umanità e pieno di manie che forse Doyle aveva immaginato: la sua riservatezza, il suo rapporto con le donne, mi ha sempre fatto pensare ad un malinconico segreto, una sofferenza pudicamente nascosta. E ho sempre ammirato il sentimento di rispetto con cui egli si confronta con loro, come il suo atteggiamento di fronte ai colpevoli che scopre. Non è mai tracotante, non li umilia mai: solo di rado, di fronte ai più meschini di loro, si ritrae con disgusto. Spesso li perdona: sembra intuire il dramma che spesso si cela dietro alla colpa. È anche per questo che amo Sherlock Holmes. Mi sono sempre chiesto a quale altra grande figura mitica britannica Holmes possa essere accostato: a chi somigli tra quei grandi che sono entrati nel mito. Forse il generale Gordon, di cui teneva un ritratto in salotto? Forse i seicento di Balaklava? Ma Holmes lavorava nell'ombra, non cercava, se possibile, la pubblicità. Forse nel passato... non certo Robin di Locksley, non certo Wilfred di Ivanhoe: entrambi eroi solitari e controcorrente, ma ribelli all'autorità. E Holmes è uomo d'ordine, ben inserito nella società in cui vive, e di cui pure conosce i limiti. Ancora più indietro dunque, dobbiamo cercare un parallelo: nella saga di Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda, che poi altro non è che la narrazione della nascita dello stato inglese nella magica spada Excalibur donata ad Artù. Non c'è somiglianza di Holmes con Artù (forse, la Regina Vittoria avrebbe potuto), né con Merlino (Mycroft?) e neppure con Parsifal o Galahad, il puro, colui che arrivò al Graal: troppo puri, idealisti sì, ma perfetti, staccati dalle cose terrene e dai loro falli. Sherlock Holmes non lo è: immerso nelle contraddizioni e nelle difficoltà della sua epoca. Ma vi è una figura in quel ciclo che io vedo accostata alla figura del grande detective di otto secoli dopo: Lancillotto del Lago.

Lancillotto, il migliore, l'imbattibile, ed insieme il più leale ad Artù. Sento dei sussurrii nel pubblico, e so quello che state pensando. Lancillotto è l'amante di Ginevra, la moglie del Re: alla faccia della lealtà. E alla faccia della proverbiale diffidenza di Holmes per le donne.

Ma vedete, le vostre obiezioni derivano da una scarsa conoscenza dei tempi. Il rapporto amoroso con la Dama, nel ciclo di Artù, non è considerata una colpa: tanto è vero che ad una attenta lettura si scopre che ad essere tacciati di "slealtà", la peggiore delle offese, sono i cavalieri che per invidia avvertono Artù. E il massimo della lealtà è di Lancelot, che salva la sua Regina, nega al Re il suo amore, e gliela restituisce: il massimo del sacrificio per lui. Accusare Lancelot di "slealtà" per il suo amore è vedere questa storia con gli occhi di oggi: sarebbe come considerare Holmes un tossicomane dei nostri giorni, ignorando bellamente che alla sua epoca l'uso della cocaina era considerata, al massimo, una abitudine disdicevole per la salute, ma del tutto non influente sul piano morale (la cocaina era venduta in farmacia, insieme all'eroina, sintetizzata dalla Bayer come l'aspirina). In nome del suo amore e della sua cavalleria Lancelot è sempre estremamente cortese e protettivo verso le altre damigelle, e ne rifiuta dolcemente le profferte amorose. Holmes faceva altrettanto, e ho sempre supposto che egli celasse in cuore un malinconico segreto: la scoperta dello spartito "To Irene" sembra dare ragione alla mia interpretazione.

Lancillotto dedica la vita intera al suo paese e al suo Re, rischiando continuamente la vita. Egli è il migliore nel suo campo, e basta fare il suo nome per inquadrare un'epoca intera. È leale con gli amici, incute terrore ai nemici: non si tira indietro a nessun pericolo, niente è troppo pericoloso per lui. È capace di grande affetto per chi ama: è legato a fraterna amicizia, per tutta la vita, con Galeotto delle Isole Lontane. Ama la sua regina, ecco il suo dramma, ma riesce sempre a conciliare questo amore segreto con la sua vita, con la sua lealtà, con la sua coerenza: e al colmo della sua forza si ritira come eremita.

Anche Holmes ha lo stesso sprezzo del pericolo, la stessa abilità, lo stesso coraggio: non esisterà più un detective che incuta tale terrore ai criminali del mondo intero. Anche egli è devoto al suo Re e alla sua patria: anche lui si ritira al culmine della carriera: anche lui considera l'amicizia per Watson il legame più importante nella vita: anche per lui la lealtà e la coerenza vengono innanzi tutto. Eppure anche lui, come Lancelot, ha una inconfessabile solitudine, una sofferenza, una angoscia, che gli rode il cuore: non l'amore per una dama (per quanto... forse...) ma l'intolleranza per una esistenza grigia, senza scosse e senza grandi ideali: ed è questo che lo spinge alla cocaina. È la sofferenza, la contraddizione, l'umanità, il peccato se volete, che rende simili questi due grandi personaggi: così grandi e così imperfetti.

Lancillotto del Lago e Sherlock Holmes: ecco i due grandi Inglesi che sento nel mio cuore assomigliarsi. Il mio Sherlock è leale e generoso come Lancillotto, e come Lancillotto soffre e si macchia di una inquietudine nascosta.

Leggiamo insieme ora la chiusa finale della saga, la morte di Lancelot, come è cantata da Chretien de Troyes, il più grande dei trovatori: questi versi, signore e signori, hanno ottocento anni.

E poco dopo, quindici giorni prima di maggio, Lancillotto sentì che la fine giungeva. Pregò il vescovo e l'eremita, i suoi compagni, di trasportare il suo corpo alla Gioiosa Guardia e di porlo nella stessa tomba in cui era Galeotto, signore delle Isole Lontane, che era morto d'amicizia per lui. Poi spirò.
Allora i due valent'uomini costruirono una bara in cui posero il morto, e con gran pena lo portarono al castello. Là fecero alzare la pietra che copriva la tomba di Galeotto, e Lancillotto fu steso affianco al vecchio compagno: poi sulla lastra furono incise lettere che dicevano:
- Qui giace il corpo di Galeotto, signore delle Isole Lontane, e accanto a lui riposa Lancillotto del Lago, che fu il migliore cavaliere che mai si sia visto nel regno di Logres..."

Noi non sappiamo se Holmes sia vivo o morto. Ma se è morto, io sono certo che la sua fine non è stata diversa: e che non diversamente riposa al fianco di John Watson, il suo vecchio compagno: e parole non dissimili sono incise sulle loro tombe.

Siamo giunti alla fine, e le ultime parole non possono non essere un grazie a tutti voi, che in un momento terribile della mia vita siete stati accanto ai miei sogni e avete assecondato le mie fantasie. Grazie a tutti gli astanti, e a Stefano, Carlo Eugenio, Francesco. Ma per l'epilogo, lasciatemi riprendere ancora le parole di Chretien de Troyes, che pochi versi dopo quelli che abbiamo già letti, declama:

E adesso il racconto tace, ché qui termina la storia di Lancillotto del Lago e del Santo Graal e del buon Re Artù, quale si trova negli antichi scritti: alcuno potrebbe dire di più senza mentire in tutto e per tutto. Io rendo grazie a Nostro Signore, come deve fare un peccatore che si è consacrato alle cose secolari, per avermi concesso il potere e l'agio di portare a termine la ricca opera cui mi sono accinto: ché molto mi sono adoprato per portarla a buon fine, e ho concluso una lunga fatica. Ora che è compiuta, mi riposerò un poco, se piacerà a Dio, e mi prenderò qualche svago. Deo Gratias

Né, a mio parere, v'è altro da aggiungere.